Abbiamo avuto un recente esempio di quanto sopra scritto, quando la crisi economica iniziava a manifestare i suoi effetti più devastanti, la Regina Elisabetta d’Inghilterra in una sua visita alla London Business School chiese come mai nessuno l’avesse prevista e gestita, considerato il fatto che a posteriori le cause sono apparse evidenti a tutti.
Una prima risposta arrivò solo otto mesi dopo dalla British Academy, a firma di una trentina di professori delle più prestigiose università britanniche, banchieri e alti rappresentanti di istituzioni finanziarie. Questi riferirono “…spesso (i banchieri, economisti e finanzieri) perdevano di vista il quadro complessivo”. Gli autori proseguono con una sconfortante accusa: “Una generazione che ha ingannato se stessa e coloro che pensavano fossero gli ingegneri dell’economia avanzata.”
Circa un mese dopo fu recapitata alla sovrana una nuova lettera, questa volta firmata da una decina di altri illustri docenti. Costoro erano d’accordo su molti punti evidenziati dai loro colleghi ma li accusavano di aver omesso la causa principale: le carenze culturali degli economisti.
Il dito veniva puntato questa volta sulla preferenza per le tecniche matematiche a scapito di altre discipline: psicologia, filosofia, storia. Queste avrebbero permesso loro di comprendere la realtà nel suo insieme e ottenere visioni sistemiche utili all’azione di governo. Al contrario, come già evidenziava da un lavoro della commissione dell’American Economic Association nel 1991, le università di tutto il mondo, americane in testa, stavano producendo troppi idiots savants esperti di tecniche ma ingenui sui reali problemi economici.
In sintesi i membri dell’Accademia britannica hanno risposto alla regina che le problematiche che hanno condotto alla crisi non sono state previste né gestite “perché l’economia è gestita dagli economisti”.
L’affermazione sembra una battuta impertinente ma, in realtà, il gruppo degli insigni consulenti della Regina ha ben spiegato che ciò che ha miseramente fallito è stata la gestione di tale realtà sulla base dei modelli matematici-statistici, tipici delle scienze economiche, senza tener conto dei fattori umani, sociali e psicologici che influenzano le azioni e le decisioni ben più dei calcoli statistici.
Tale fenomeno, hanno dichiarato, è stato ancor più deflagrante a causa della globalizzazione dei mercati, contesto nel quale le differenze culturali e religiose/ideologiche determinano prese di posizione non solo politiche ma anche economiche. Pertanto, tale ristretta ottica si è dimostrata tanto cieca quanto fallimentare.
Purtroppo la logica quantitativa/statistica ha pervaso la maggioranza delle discipline scientifiche ed applicative occidentali, anche campi non sospetti come la psicologia e la medicina che sono discipline eminentemente non economiche, provocando in tali settori un marcato scadimento della evoluzione innovativa delle metodiche di intervento e ricerca a favore della illusione del controllo matematico delle procedure.
Sembra che ci si sia dimenticati che la statistica è un mero strumento di elaborazione dei dati e non un criterio di valutazione dei risultati e che anch’essa è stata inventata dagli esseri umani. Tutto questo ha condotto la scienza del management moderna, ovvero l’insieme di discipline che si occupano del migliorare le performance aziendali e organizzative, ad esprimersi nella maggioranza dei casi in una gestione aziendale arida, basata meramente sui numeri e che l’abuso della sua applicazione conduce ad aberrazioni ben poco intelligenti ed all’azzeramento della considerazione del fattore umano.
Questo è il caso, non raro, del manager che taglia posti di lavoro e gli investimenti di ricerca, mettendo in sicuro i conti dell’azienda e ricevendo così i suoi “bonus” a fine anno ma strangolando in tal modo l’impresa.
Al lato opposto, da anni, il campo della formazione e consulenza aziendale pullula di offerte decisamente prossime a percorsi magico-esoterici o religiosi, come ad esempio: basare la strategia manageriale sulla Cabala o sullo Zen tibetano, oppure ancora formare i manager a trattare l’azienda come un’abbazia cistercense. Non mancano poi le offerte dei “motivatori” che per elevare le potenzialità dei manager li fanno camminare a piedi nudi sul fuoco, o partecipare ai giochi outdoor come il rodeo, o le simulazioni di battaglia sino al far fare loro esperienze di sport estremi. Attività queste che ben poco hanno a che fare con la performance di un manager aziendale e che vengono proposte sulla base di un supposto effetto magico della de contestualizzazione dell’esperienza.
Anche il lettore poco esperto del settore può comprendere come per un’azienda che si trova in crisi la scelta di una consulenza o di un percorso di formazione e ristrutturazione della sua organizzazione possa essere non solo difficile ma anche rischiosa. Non è un caso che negli ultimi tempi le richieste rivolte ai cosiddetti “guru” della consulenza o ai “maestri” della formazione si siano fortemente contratte.
Riteniamo che questo ridimensionamento del mercato della consulenza e della formazione aziendale non sia un male ma una occasione di cambiamento poiché dal nostro punto di vista, come per altre discipline che si occupano di soluzione di problemi o di raggiungimento di obiettivi prefissati, anche la scienza del management e i suoi settori applicativi debbano essere strutturati come ambiti ove il rigore sia coniugato all’inventiva, la sistematicità alla creatività, all’interno di modelli flessibili e adattabili alle differenti caratteristiche di ogni azienda o organizzazione e capaci di adattarsi alle circostanze impreviste.
Tale cambiamento richiede un saltus logico che imponga la costante verifica dell’efficacia come unica forma di validazione di ogni intervento, aldilà di qualunque posizione teorica o convincimento ideologico. Questa prospettiva strategica prevede, inoltre, che nella pianificazione e realizzazione degli interventi mirati agli scopi produttivi e di successo, si tenga sempre a mente che anche le migliori soluzioni sono fallimentari se non tengono conto del fatto che un’azienda è un organismo vivente, un sistema composto di molte componenti che svolgono funzioni diverse e che l’insieme è ben più della somma delle sue parti.
Il sistema azienda rappresenta una “qualità emergente” in grado di essere efficace per i suoi scopi solo se funziona armonicamente. Tale condizione inevitabilmente viene creata ed alimentata dalle relazioni tra gli esseri umani che vivono e che agiscono al suo interno, anche quando può sembrare che la complessità dell’organizzazione li travalichi, sono sempre e comunque gli individui e la loro cooperazione a costruire il successo o l’insuccesso di un’azienda. Trattare di questo significa focalizzarsi sul fattore umano che crea, nutre e talvolta avvelena o distrugge l’organizzazione produttiva, con lo scopo di risvegliare l’attenzione sulle capacità dell’individuo e dei gruppi di persone all’interno di quell’organismo vivente che è l’azienda, in modo da sospingerne l’anelito vitale. L’azienda che funziona come il migliore dei velieri sa catturare e farsi sospingere dai venti interni ed esterni alla sua organizzazione facendo si che ogni singola componente dell’equipaggio si senta artefice del successo.
Sono trascorsi vent’anni da quando per la prima volta ci siamo occupati di intervenire su problematiche aziendali, applicando al campo delle organizzazioni le strategie di cambiamento e le tecniche di comunicazione sviluppate da Giorgio Nardone con i problemi umani e le loro soluzioni.
In questi due decenni il lavoro di ricerca-intervento per la messa a punto di soluzioni strategiche, così come delle modalità comunicative che le rendessero applicabili, si è evoluto parallelamente nel campo clinico e in quello manageriale un modello di Problem Solving Strategico del tutto originale, anche se dapprima sviluppato sulla scia della tradizione della Scuola di Palo Alto.
Questo modello innovativo per la soluzione dei problemi umani personali, relazionali e sistemici nelle sue applicazioni specialistiche ha originato una serie di specifici protocolli di trattamento per le più importanti patologie psicologiche e manageriali (vedi bibliografia) che spiccano per la loro efficacia ed efficienza, replicabilità, predittività e trasmissibilità.
Ciò sta a indicare che il modello di Problem Solving Strategico sviluppato ad Arezzo non è solo uno strumento capace di guidare alla soluzione di problemi in tempi brevi, bensì anche un approccio rigorosamente scientifico che si distingue dalle tante proposte di intervento ben poco rigorose, se non talvolta esoteriche, presenti sul mercato della formazione e della consulenza aziendale.
Il modello guida rigorosamente il problem solver a trovare soluzioni originali o ad adattare tecniche già applicate con successo alla stessa tipologia di problema, così come al calzare le modalità applicative alle peculiarità di ogni singolo sistema aziendale e organizzativo.
Per il problem solver strategico, infatti, non sono le spiegazioni interpretative che conducono a mettere a punto gli interventi risolutivi, bensì sono le soluzioni efficaci a spiegare il funzionamento dei problemi risolti.
In sintesi un Problem Solver Strategico è come un esperto marinaio che, in mezzo all’oceano, cerca di prevedere e programmare le proprie azioni sulla base delle condizioni del mare in quel momento.
Deve prevedere l’insorgere di imprevisti e prepararsi ad affrontarli confidando soltanto sulla sua “consapevolezza operativa”, non sul controllo assoluto degli eventi.
Non solo, ma egli non conosce e non può conoscere né la profonda verità del mare, né tantomeno il perché dei suoi mutamenti.
Eppure con questa sua conoscenza limitata al “come fare” attraversa gli oceani e fronteggia le tempeste adattando sempre il suo agire
all’evolversi degli eventi.