il problem solving strategico

Soluzioni semplici a problemi complessi, in tempi brevi:
l’evoluzione del modello della scuola di Palo Alto (Mental Research Institute). 

Nella letteratura relativa ad aziende e organizzazioni si fa riferimento spesso ai concetti di strategie e di problem solving strategico, riferendosi però, con tali espressioni, a costrutti teorico-applicativi e ad approcci spesso diversi e, talvolta, contrapposti. Si tratta infatti di un settore che si offre all’analisi nei suoi aspetti più diversi: basti pensare alle molte pubblicazioni relative a strategie di gestione aziendale, all’attuazione di strategie vincenti per raggiungere il successo, o ancora alle strategie di marketing per conquistare nuovi segmenti di domanda o lanciare nuovi prodotti, oppure alle strategie di comunicazione interne ed esterne all’azienda.

Ognuno di questi ambiti, poi, può essere affrontato a partire da orientamenti teorici differenti, con il risultato che l’espressione problem solving viene ad assumere significati e valenze diversissimi.

Per questo motivo appare indispensabile chiarire subito che, quando parliamo di PROBLEM SOLVING STRATEGICO, ci riferiamo a un particolare modello di soluzione di problemi, formulato in maniera originale dal gruppo Nardone, (registrato anche come marchio) che ha alla base un’epistemologia e una logica ben precisa e, va quindi distinto dagli altri modelli.

Il Problem Solving Strategico si può applicare per definizione a qualunque tipologia di problema e ad ambiti decisamente diversi tra di loro poiché la sua struttura si è venuta a creare grazie a una ricerca-intervento di tipo empirico-sperimentale applicata a centinaia di casi, tanto che il Problem Solving Strategico è stato basilare per la messa a punto dei protocolli specifici di intervento terapeutico che compongono il modello di psicoterapia breve strategica. In altri termini, è la metodologia su cui si fondano i diversi approcci di intervento breve strategico: la psicoterapia, il coaching, il counseling, la consulenza aziendale.

Sulla scia del modello di Problem Solving e della Comunicazione Strategica abbiamo strutturato dei percorsi formativi specifici rivolti alle varie figure PROFESSIONALI in diversi ambiti

“Ogni teoria razionale, non importa se scientifica o filosofica,
é tale nella misura in cui cerca di risolvere determinati problemi.”
(K. Popper)

Una nota narrazione islamica potrà aiutarci a chiarire meglio i presupposti di una logica che si definisce strategica e quale debba essere il ruolo di un problem solver strategico nel processo di risoluzione di un problema.

Di fronte a questa storiella saremmo quasi portati, come i quattro fratelli, a credere che la divisione sia stata resa possibile grazie a un qualche intervento di tipo «magico». In realtà il saggio non ha operato alcuna magia, ma si è limitato semplicemente ad applicare una logica matematica rigorosa, ossia ad aggiungere una «x» – come si può fare nelle equazioni matematiche – in modo da rendere possibile un’operazione che, altrimenti, sarebbe stata impossibile. Alla fine dell’operazione, poi, non ha fatto altro che riprendersi la «x», vale a dire il quarantesimo cammello (che era il suo). L’adozione di una logica rigorosa di questo tipo ha permesso di risolvere in modo semplice un problema apparentemente molto complicato, che sembrava irrisolvibile a partire da una logica aristotelica tradizionale, basata sui presupposti del «vero o falso» e del «terzo escluso».

Questa storiella, a nostro avviso, rappresenta un’ottima metafora del modo di agire di un problem solver strategico. Proprio come il saggio errante, infatti, il “tecnico del cambiamento” che si trova a dover raggiungere un obiettivo, come risolvere un problema in azienda, mette in gioco i propri strumenti e la propria professionalità per poi riprenderseli dopo aver innescato un cambiamento evolutivo del sistema su cui è intervenuto.

Le sue strategie non sono tuttavia frutto di un improvviso atto di creatività, ma sono basate sull’applicazione di un preciso e rigoroso modello logico di intervento. In particolare, il Problem Solving Strategico si rifà a quella branca specialistica della logica matematica nota come «logica strategica» (Elster, 1979, 1985; Da Costa, 1989a, 1989b; Nardone, Salvini, 1997; Nardone, 1998).

Tale logica si differenzia dalle logiche tradizionali per la sua caratteristica di mettere a punto il modello di intervento sulla base degli obiettivi prefissati e delle specifiche caratteristiche del problema affrontato, piuttosto che sulla base di una rigida teoria precostituita. In altri termini, si rinuncia a seguire ciecamente una qualsiasi prospettiva rigida che fornisca, in maniera deterministica, indicazioni su come procedere o pretenda di dare una descrizione aprioristica ed esaustiva dei fenomeni che si stanno studiando.

In ambito aziendale esistono dei costrutti che per certi periodi sono stati «di moda»: negli anni ’70 le teorie su marketing e vendite, negli anni ’80 la qualità totale, negli anni ’90 l’organizzazione a stella, l’one-to-one marketing, la customer satisfaction, il relation marketing, le unità di business. Questo solo per citare alcune delle più diffuse teorie di marketing e di organizzazione aziendale (Stonich, 1985; Di Stefano, 1986; Depolo, Sarchielli, 1991; Peters, 1997).

Per quanto attiene, invece, alla comunicazione e alla gestione delle risorse umane, le teorie si sono evolute introducendo concetti come quello di leadership situazionalediffusatrasformazionale e gli innumerevoli modelli della comunicazione manageriale (Schein, 1987; Romano, Felicioli, 1992).
Tali costrutti rimandano a diversi modelli teorici e all’individuazione di strategie d’azione sempre più elaborate ed evolute. Spesso, però, la formulazione di una strategia non si confronta con l’attuazione della stessa, e quindi non si può dimostrarne l’efficacia. Una caratteristica comune a questi costrutti è spesso quella di basarsi su una visione della realtà che pretende di analizzare e descrivere in maniera univoca i fenomeni oggetto di studio. In altre parole, essi si basano su una visione monista della realtà, per cui esiste un’unica realtà «vera» dalla cui conoscenza non si può prescindere per poter mettere in atto un qualsiasi tipo di intervento.

Si tratta, quindi, di teorie caratterizzate da una forte rigidità e autoreferenzialità nell’individuazione e descrizione dei fenomeni che sono il loro oggetto di studio. Di conseguenza, da tali modelli derivano indicazioni metodologiche pratiche che appaiono fortemente condizionate dai presupposti teorici rigidi propri del modello stesso.
Qualunque teoria, anche la più sofisticata, nel momento in cui diventa fortemente determinista e assolutista si trasforma in una potente lente deformante della realtà cui si applica. Questo spesso pregiudica la realizzazione di un intervento realmente efficace nella sua applicazione pratica, poiché la strategia adottata sarà molto più influenzata dalla teoria di riferimento che dalle caratteristiche del problema da risolvere.
A questo proposito appaiono decisamente esemplificativi i famosi esperimenti eseguiti presso l’università di Stanford dallo psicologo Bavelas. L’esperimento in questione, cui furono sottoposti numerosi soggetti di diverso ceto, estrazione sociale, età e sesso, si svolgeva nel seguente modo.

<< Lo sperimentatore dichiarava al soggetto: «Io adesso leggerò un certo numero di coppie di cifre a due a due, lei dovrà dirmi se queste cifre si accordano o meno tra di loro». Invariabilmente, all’inizio della prova, tutti i soggetti chiedevano delle informazioni più precise riguardo a come questi numeri avrebbero dovuto «accordarsi».
Lo sperimentatore spiegava allora che il loro compito consisteva proprio nello scoprire tali nessi. Il soggetto veniva così a trovarsi in una situazione tipica degli esperimenti «per prove ed errori», in cui si inizia col dare delle risposte in modo casuale, aggiustando gradatamente la strategia di risposta sulla base delle conferme date dallo sperimentatore, sino a cogliere il nesso logico cercato. All’inizio lo sperimentatore dichiarava sempre sbagliate le risposte del soggetto, poi – senza seguire alcuna logica – cominciava a dichiarare che alcune erano giuste. Continuava, in seguito, sempre casualmente – ovvero senza alcuna valutazione effettiva della risposta – aumentando il numero di risposte definite come corrette.
L’esperimento procedeva facendo in modo che il soggetto avesse l’impressione di incrementare progressivamente la correttezza delle sue risposte. Quando si giungeva al punto in cui lo sperimentatoredichiarava sempre corrette le risposte del soggetto, lo psicologo interrompeva l’esperimento e chiedeva al soggetto di spiegargli come si fosse formato nella mente i modelli logici che lo avevano portato a procedere nell’esperimento e a stabilire un nesso fra le cifre proposte.
Le spiegazioni offerte erano solitamente complicatissime, talvolta decisamente astruse.
A questo punto, lo sperimentatore svelava il trucco dell’esperimento e confessava al soggetto che non esisteva alcun nesso logico che legava i numeri, e che aveva dichiarato giuste o sbagliate le risposte su uno schema preordinato. Non esisteva dunque alcuna reale corrispondenza tra le domande e le risposte, alcun nesso matematico, logico, figurativo, ecc.>>

Quello che appare particolarmente interessante è che, a questo punto, la stragrande maggioranza dei soggetti si rifiutava di credere allo psicologo e manifestava una grandissima difficoltà ad abbandonare la visione che aveva costruito nella propria mente. Alcuni soggetti, addirittura, cercavano di convincere lo sperimentatore che esistevano davvero dei nessi logici dei quali lui non si era ancora reso conto.

Questo esperimento, come molti altri dello stesso tipo, dimostra chiaramente come le persone presentino grandi difficoltà a modificare una propria convinzione, dopo che questa è venuta costruendosi mediante un processo esperienziale vissuto come efficace e si sia strutturata come teoria di riferimento del soggetto.
Già Schopenhauer aveva evidenziato l’influenza esercitata dalla teoria e dai modelli assunti nella relazione del soggetto con la realtà che si trova a dover gestire. A partire dal «principio di indeterminazione» di Heisenberg fino alla moderna epistemologia costruttivista, è apparso sempre più evidente il potere che l’assunzione di una teoria ha nella lettura dei fenomeni cui viene applicata. «Sono le teorie che determinano ciò che possiamo osservare» affermava Einstein già negli anni ’30.

Nonostante questa consapevolezza sia ormai universalmente diffusa nella moderna filosofia della scienza, la maggior parte degli approcci teorici e metodologici presenti attualmente nell’ambito della psicologia e sociologia del lavoro, così come della psicologia clinica, si basano ancora su teorie forti di tipo descrittivo e normativo. Ma, come abbiamo detto, si tratta di approcci che determinano le strategie di risoluzione di un problema in base ai propri rigidi presupposti teorici e indipendentemente dalle caratteristiche del problema da risolvere e dell’obiettivo da raggiungere.

 Nel modello di Problem Solving Strategico, al contrario, il presupposto fondamentale è la rinuncia a qualsiasi teoria forte che stabilisca a priori la strategia di intervento.
In quest’ottica si evita di dare una definizione della natura delle cose e, di conseguenza, di determinare una modalità di intervento definitiva e universale. Da questa prospettiva è sempre la soluzione che si adatta al problema e non viceversa, come avviene invece nella maggioranza dei modelli di intervento tradizionali. La logica strategica vuole insomma essere flessibile e cerca di adattarsi al proprio oggetto di studio.

Tale approccio affonda le sue radici nella moderna epistemologia costruttivista, secondo la quale non esiste un’unica realtà ontologicamente «vera», ma tante realtà soggettive che variano a seconda del punto di vista adottato. La realtà viene considerata il prodotto della prospettiva, degli strumenti conoscitivi e del linguaggio mediante i quali la percepiamo e la comunichiamo (Salvini, 1988).

In base a questi presupposti, il valore di una teoria viene a dipendere non dalla sua supposta «veridicità», ma piuttosto dalla sua portata euristica, cioè dalla sua capacità di intervento reale, misurata in termini di efficacia ed efficienza nella risoluzione dei problemi. La sola domanda sensata che possiamo porci, dunque, non è quale teoria sia più «corretta» o rispecchi la realtà meglio delle altre, ma semplicemente quale teoria produca risultati più efficaci e rapidi (Nardone, Watzlawick, 1990).
Abbandonando la rassicurante tesi positivista di una conoscenza «scientificamente vera» della realtà, nell’intervento strategico ci si preoccupa di individuare i modi più «funzionali» di conoscere e agire, ovvero di aumentare quella che von Glasersfeld (1984) ha definito «consapevolezza operativa».

Al problem solver strategico non interessa conoscere le verità profonde e il perché delle cose,
ma solo «come» funzionano e «come» farle funzionare nel miglior modo possibile.
La sua prima preoccupazione è quella di adattare le proprie conoscenze alle «realtà» parziali che
si trova di volta in volta ad affrontare, mettendo a punto strategie fondate
sugli obiettivi da raggiungere e in grado di adattarsi, passo dopo passo, all’evolversi della «realtà».

Aumentare la propria consapevolezza operativa significa quindi lasciare in secondo piano la ricerca delle cause degli eventi per concentrarsi sullo sviluppo di una sempre maggiore capacità di gestire strategicamente la realtà che ci circonda in modo da raggiungere i propri obiettivi.
Il primo passo sarà dunque quello di evitare posizioni deterministe fin dalla prima osservazione della realtà su cui si dovrà intervenire. Per farlo, si dovrà orientare la nostra metodica di indagine in direzione del cambiamento già a partire dalle domande che ci poniamo. Innanzitutto, è importante evitare di porsi la domanda del «perché» la realtà problematica da affrontare si sia formata. Tale tipo di interrogativo, infatti, implica l’esistenza di un processo di causalità lineare alla base dei fenomeni, e rimanda dunque a una teoria di riferimento forte in grado di «spiegare» il «perché» delle cose, che noi rifiutiamo poiché non funzionale al raggiungimento della soluzione.

 Come afferma Wittgenstein (1980), il linguaggio che noi utilizziamo ci utilizza, nel senso che i codici linguistici che usiamo per comunicare la realtà sono gli stessi che utilizziamo nella rappresentazione ed elaborazione delle nostre percezioni. Questo significa che linguaggi diversi conducono a differenti rappresentazioni della realtà.
Porsi una domanda con un codice linguistico piuttosto che con un altro non è dunque una scelta priva di conseguenze, perché il tipo di domanda veicola sempre il tipo di risposta.
Per un cambiamento strategico, quindi, non si può utilizzare un codice linguistico che riconduca a una ricostruzione causale, ma si deve usare un codice che si focalizzi sul processo di cambiamento.
Come chiarisce Salvini (1995), l’ottica assunta nell’osservare un fenomeno influenza le successive rilevazioni: se un medico analizza una realtà mediante criteri diagnostici, giungerà a rilevare una patologia coerente con i criteri usati come riferimento. Ovvero non «conosce», ma «riconosce» un fenomeno, poiché la sua metodica di indagine è viziata dai suoi rigidi codici rappresentazionali e linguistici. Come osservava Kant, la maggior parte dei nostri problemi non deriva dalle risposte errate che ci diamo ma dalle domande scorrette che ci poniamo.

 In base a quanto detto, sostituiremo la domanda del «perché» con quella del «come funziona». Chiedendosi «come funziona» una data situazione, infatti, si evita di andare alla ricerca dei «colpevoli»,focalizzandosi, invece, sulle modalità che determinano la persistenza di un determinato equilibrio e su come questo possa essere modificato.

 Questo significa orientare l’osservazione sulla persistenza di un problema piuttosto che sulla sua formazione. Perché è sulla persistenza di un problema che si può intervenire, e non sulla sua precedente formazione. A nessuno è data la possibilità d’intervenire nel passato. Chiedersi «come funziona» orienta l’indagine in direzione della ricerca del cambiamento nel presente, mentre domandarsi «perché» conduce a ricercare le spiegazioni in eventi già accaduti che non possono comunque essere cambiati.
Come il lettore può ben comprendere, questa differenza, apparentemente minima, nel porsi di fronte al problema rappresenta un aspetto cruciale che differenzia e caratterizza il processo di Problem Solving Strategico.

 Assumere una tale prospettiva implica, a livello epistemologico, superare il concetto deterministico di unidirezionalità nel rapporto causa-effetto a favore di una concezione non deterministica in cui le variabili in relazione danno vita a un complesso sistema circolare di causazione reciproca (Watzlawick, Beavin e Jackson, 1967). In tale sistema non esistono un inizio e una fine, una causa e un effetto, ma solo un insieme di reciproche influenze tra le variabili: nella causalità circolare, la causa produce l’effetto e l’effetto a sua volta influenza retroattivamente la causa divenendo esso stesso causa (Watzlawick, 1976). Questo concetto di feedback, tratto dalla Cibernetica, appare particolarmente appropriato per evidenziare la circolarità delle influenze reciproche proprie dei sistemi interpersonali, siano essi a livello di micro o di macro organizzazioni.

 Nell’approccio strategico, quindi, si assiste al passaggio da una conoscenza che pretende di descrivere la verità delle cose, quella positivista e determinista, a una conoscenza operativa, quella costruttivista, che ci permette di gestire la realtà nel modo più funzionale possibile (Nardone, 1998).

 Da questo punto di vista, il problem solver agisce anche in linea con i dettami dell’antico buddismo zen, che individuava due tipi di verità: le «verità d’essenza» e le «verità d’errore». Le prime, «trascendenti», possono essere raggiunte solo nell’aldilà grazie all’«illuminazione»; le seconde sono «verità strumentali» utili a costruire e realizzare progetti nel mondo delle cose e dell’apparenza. Ogni «verità d’errore», dopo essere stata utilizzata, si infrange e deve essere sostituita da altre «verità d’errore», le quali variano, di volta in volta, in virtù delle differenti realtà con cui tutti noi, in quanto esseri viventi, dobbiamo continuamente confrontarci (Watzlawick, Nardone, 1997).

In virtù di questi presupposti, il modello di intervento strategico viene a costituirsi primariamente sulla base dell’obiettivo da raggiungere. Le strategie di soluzione non saranno dunque la logica conseguenza di una teoria normativa che guida l’intervento e neppure di un processo di definizione della realtà alla luce delle conoscenze precedenti, ma terranno conto delle caratteristiche del problema da risolvere e dell’obiettivo che ci si è posti. Come afferma Jullien – riferendosi a un contesto dove le strategie efficaci ed efficienti rappresentano una questione di vita o di morte – «in guerra più che ovunque altrove, le cose avvengono diversamente da come si era pensato, e assumono da vicino un aspetto diverso che da lontano»

 Il problem solver strategico ha a sua disposizione un insieme di tattiche e strumenti flessibili e adattabili alle diverse situazioni cui può trovarsi di fronte. Egli non inventerà ogni volta ex novo il modello di intervento, ma sarà in grado, anche grazie alla propria esperienza, di selezionare le strategie ritenute più idonee e calzanti in vista di un obiettivo specifico o del tipo di problema. Sulla base degli effetti rilevati durante il processo di risoluzione del problema, inoltre, egli opererà una progressiva correzione e aggiustamento del modello di intervento.

 L’intervento strategico, infatti, per quanto rigoroso e sistematico, ha l’importante caratteristica di essere flessibile e autocorrettivo, ovvero di modificarsi e adattarsi nel corso della sua interazione con la realtà alla quale si applica. Questa proprietà lo salvaguarda da irrigidimenti «autoimmunizzanti» (Popper, 1972).
La possibilità di correggere l’intervento sulla base degli effetti rilevati vigerà in ogni singola fase del processo di problem solving. Questo significa che l’efficacia non sarà misurata solo fra l’inizio e la fine dell’intervento, ma sarà valutata progressivamente per ogni singola mossa e manovra messe in atto, in modo da permettere una costante autocorrezione del modello di intervento nel corso del suo stesso svolgimento.

 Come nel gioco degli scacchi, la strategia si corregge e si adatta continuamente sulla base delle mosse dell’avversario e delle variazioni di ogni specifica partita. Questo rende ogni partita qualcosa di unico e originale: nonostante le mosse possibili nel gioco degli scacchi rimangano sempre un numero limitato e ben definito, la loro combinazione produce infinite possibilità.

Per comprendere la differenza tra un intervento che si basa su una logica ordinaria e uno che segue la logica strategica, immaginiamo di dover indovinare a quale dei sessantaquattro quadratini di una scacchiera stia pensando una persona, facendole il minor numero possibile di domande.

Seguendo una logica ordinaria potremmo dover impiegare fino a 63 domande per indovinare il quadratino pensato, poiché dovremo arrivare a escludere ogni singolo quadratino con una domanda alla volta. Seguendo la logica strategica, invece, siamo in grado di indovinare il quadratino con sole 6 domande.
Tracciando un’ipotetica riga verticale al centro della scacchiera, possiamo, infatti, cominciare col chiedere alla persona se il quadrato al quale sta pensando si collochi nella parte destra o sinistra della scacchiera: abbiamo così già escluso 32 quadratini. Tracciando una linea orizzontale, chiediamo quindi alla persona se il quadratino si collochi nella parte superiore o inferiore della scacchiera, escludendo altri 16 quadrati. Procedendo in questo modo, arriveremo a dividere la scacchiera in 8, 4 e infine 2 quadratini, fino a poter indicare con esattezza il quadrato cui la persona ha pensato dopo solo 6 domande.>

Questo rappresenta un ottimo esempio di modello di intervento strategico, ossia di un modello basato sul presupposto che non è possibile conoscere a priori quale sia la strada giusta per raggiungere un obiettivo se non cominciando a percorrerla. Come afferma von Glasersfeld (1985), «tutto ciò che possiamo mai conoscere del mondo reale è ciò che il mondo non è». Nella migliore delle ipotesi, quindi, possiamo solo adattarci nel modo più funzionale a ciò che percepiamo.

Di conseguenza, possiamo arrivare a conoscere come una situazione problematica persista e si alimenti solo intervenendo attivamente per cercare di risolverla. L’unica variabile conoscitiva che un ricercatore può controllare, infatti, è la propria strategia, la quale, se funziona, permette di svelare le modalità di funzionamento della realtà oggetto di studio. La logica strategica si basa insomma sul costrutto «conoscere un problema mediante la sua soluzione» (Nardone, 1993), ossia conoscere una realtà attraverso le strategie in grado di cambiarla.

Rinunciando alla pretesa di una conoscenza a priori dei fenomeni oggetto di studio, il problem solverstrategico deve avere a disposizione un qualche «riduttore di complessità» che gli consenta di cominciare a intervenire sulla realtà da modificare e di svelarne così, progressivamente, la modalità di funzionamento.
A partire dagli studi dei ricercatori della scuola di Palo Alto (Watzlawick, Beavin, Jackson, 1967; Watzlawick, Weakland, Fisch, 1974; Watzlawick, 1977; Fisch, Weakland, Segal, 1982), e sulla scia degli ultimi venti anni di ricerca in campo clinico e organizzativo (Nardone, Watzlawick, 1997; Nardone; 1998, Nardone, Watzlawick, 2000), tale riduttore è stato individuato nel costrutto di «tentata soluzione».

Quando si presenta un problema all’interno di un determinato contesto, nel nostro caso quello delle realtà organizzative complesse, si ha la tendenza a far ricorso all’esperienza sotto forma di riproposizione di interventi risolutivi che in passato hanno funzionato per problemi analoghi. Di fronte all’insuccesso di tali strategie, poi, piuttosto che ricorrere a modalità di soluzione alternative, si ha la tendenza ad applicare con maggior vigore la strategia iniziale, nell’illusione che fare «più di prima» la renderà efficace.
Questi tentativi di reiterare una stessa soluzione che non funziona finiscono per dar vita a un complesso processo di retroazioni in cui sono proprio gli sforzi in direzione del cambiamento a mantenere la situazione problematica immutata. Da questo punto di vista, possiamo affermare che le «tentate soluzioni» diventano il problema (Watzlawick et al., 1974).
Quando un sistema si trova in questa situazione è invischiato dentro un «gioco senza fine», poiché è esso stesso una componente del problema. L’unica soluzione possibile è dunque quella di provocare un cambiamento del sistema stesso.

La rottura dell’equilibrio «patologico» di un sistema si ottiene intervenendo sulle soluzioni disfunzionali adottate per risolvere il problema. A questo proposito Watzlawick et al. (1974) distinguono due tipi di cambiamento che si possono verificare in relazione a un sistema. Il primo (cambiamento 1) si attua entro il sistema stesso, lasciandolo immutato; il secondo (cambiamento 2) è introdotto dal di fuori e cambia il sistema stesso.
Solo il cambiamento 2 rappresenta una concreta soluzione al problema, richiedendo un salto di livello logico (cioè la fuoriuscita dal sistema) ed essendo effettuato sulle «tentate soluzioni» messe in atto dal sistema.
Un esempio che chiarisce questo concetto è l’esperienza che ogni persona vive durante un incubo:qualunque cosa questa cerchi di fare all’interno dell’incubo non la libera da quel sogno terribile. All’incubo si sfugge solo con il risveglio che non fa parte del sogno perché è un elemento a esso esterno.

Anche nelle aziende, come potete leggere nelle nostre altre pagine web, i problemi possono essere molto diversi, ma solitamente sotto ognuno di essi si cela l’abitudine a reiterare i medesimi tentativi di soluzione anche se questi, oltre a non aver portato alcun miglioramento, in alcuni casi hanno provocato addirittura un peggioramento della situazione.
La prima cosa che il problem solver dovrà fare, quindi, sarà individuare le «tentate soluzioni» che il sistema e le persone in esso implicate hanno messo in atto finora per raggiungere un dato obiettivo o per modificare una situazione ritenuta disfunzionale. L’intervento strategico si occuperà poi di rompere nel modo più efficace e rapido possibile quel meccanismo autopoietico stabilitosi tra le tentate soluzioni e la persistenza di un equilibrio disfunzionale.
Un intervento di questo tipo è reso possibile dall’adozione, nella costruzione delle strategie, di nuovi modelli di logica che superano i principi logici aristotelici del «vero o falso» e della «non-contraddizione»,quali la logica «paraconsistente», «paracompleta» e «non-aletica» (da Costa 1989a, 1989b; Grana, 1990; Skorjanec, 2000), messi a punto negli ultimi decenni. Da quando Gödel, con il suo trattato sulle Proposizioni indecidibili (1931), fece crollare la possibilità di una logica rigorosamente razionale, la logica matematica si è evoluta verso lo sviluppo di questi modelli, che contemplano la contraddizione, la credenza e ilparadosso come procedimenti rigorosi e predittivi per il costruirsi delle credenze e del comportamento umano (Nardone, 1998).

 Mediante l’uso di queste nuove logiche si possono utilizzare, in maniera sistematica, dei procedimentilogici non ordinari che permettono di costruire stratagemmi in grado di portare al conseguimento di obiettivi o alla risoluzione di problemi che apparirebbero altrimenti irraggiungibili e irrisolvibili se perseguiti mediante una logica ordinaria (Watzlawick, Nardone, 1997). Nei casi in cui fallisce una procedura logica ordinaria – basata sul disvelamento delle caratteristiche di formazione e persistenza di un problema e sulle conseguenti indicazioni relative a come procedere ragionevolmente per cambiare – diventa perciò indispensabile l’adozione di procedure logiche alternative.

Questa, a nostro avviso, è la situazione più frequente in cui viene a trovarsi un’azienda o un’organizzazionenel momento in cui manifesta la necessità dell’intervento di un esperto, sia in campo formativo che di consulenza. In queste situazioni, infatti, generalmente sono state già provate svariate modalità di intervento basate su procedure logiche ordinarie per raggiungere il particolare obiettivo che l’azienda si pone, senza che questo abbia però portato a risultati realmente soddisfacenti.
Di fronte a fenomeni che reggono la loro persistenza su logiche non ordinarie, quindi, appare indispensabile adottare interventi basati su procedimenti alternativi, ossia procedure strategiche che contemplino l’uso di logiche diverse in grado di innescare cambiamenti. Tali logiche alternative funzionano usualmente come stratagemmi che inducono le persone coinvolte nella realtà problematica a cambiare le loro percezioni e di conseguenza le loro azioni, conducendole così a sbloccare le risorse sino allora prigioniere dell’interazione «viziosa» tra tentativi di soluzione e persistenza del problema.

Per concludere questa presentazione dedicata ai fondamenti teorico-applicativi dell’approccio strategico alla soluzione di problemi, riteniamo utile riassumerne schematicamente le caratteristiche essenziali.

–  Gli interventi vengono costruiti sulla base degli obiettivi da raggiungere piuttosto che sulle indicazioni di una forte teoria a priori;

–  La logica utilizzata nella costruzione delle strategie è di tipo costitutivo-deduttivo piuttosto che ipotetico-deduttivo, in modo da adattare la soluzione al problema ed evitare che sia questo ad adattarsi alle soluzioni;

–  Invece di orientare gli interventi a partire da un’indagine sulle cause dei fenomeni, che ci riconducono ad un passato che non si può più modificare, si induce il cambiamento ricorrendo a una filosofia dello stratagemma, lavorando sul qui e ora.

–  Il modello di intervento è sottoposto a un costante processo di autocorrezione ed evita di perseverare con tentativi di soluzione che non producono esiti positivi, e che spesso esacerbano il problema che dovrebbero risolvere.

 In virtù di queste sue caratteristiche, il Problem Solving Strategico si evidenzia come logico e rigoroso, ma al tempo stesso elastico e creativo.  Le nostre strategie non sono frutto di un improvviso atto di creatività, ma sono basate sull’applicazione di un sistematico e rigoroso metodo di ricerca, attraverso una precisa logica non ordinaria di intervento che fanno sì che rigore ed inventiva si completino e si alimentino a vicenda, poiché come sosteneva G. Bateson “Il rigore da solo è morte per asfissia, la creatività da sola è pura follia”.

Ci sembra cruciale infine mettere in risalto il fatto che, per applicare con efficacia il modello di PSS, è necessario non solo il «sapere», bensì anche il «saper fare», ovvero la capacità di comunicare agli altri e a se stessi, consentendo di evadere dalla trappola degli schemi mentali e comportamentali.
Difatti alle strategie e tecniche di PSS si affianca l’utilizzo deliberato e consapevole della comunicazione persuasoria, veicolo principale per produrre cambiamenti ed effetti positivi (risoluzione di problemi o raggiungimento di obiettivi nella realtà organizzativa oggetto dell’intervento).
Logica di problem solving e comunicazione rappresentano le due anime dell’approccio strategico; non può esistere problem solving strategico senza una comunicazione strategica, e viceversa.

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Il primo rappresenta il metodo che guida l’intervento, la seconda è il veicolo che ne permette l’applicazione. Il linguaggio, i gesti e le azioni, sono il bisturi del problem solver che, se usato con precisione chirurgica, può condurre a esiti straordinari, viceversa, se usato senza maestria non sarà possibile operare alcun cambiamento chirurgico.

 Grazie a queste sue prerogative è stato applicato con successo a oltre 20.000 casi in diversi ambiti: dal contesto clinico a quello educativo, dallo studio delle relazioni interpersonali al mondo delle organizzazioni, con esiti così straordinari da apparire miracolosi.

 Non devono infatti stupire risultati talvolta eclatanti tanto da essere dichiarati magici poiché come indicava A. C. Clarke “una tecnologia abbastanza avanzata è indistinguibile dalla magia”. 

Per saperne di più sul modello suggeriamo le seguenti letture:

 

–  L’AZIENDA VINCENTEM. Cristina Nardone,R. Milanese, R. Prato Previde , “Saggi di terapia breve” Ponte alle Grazie Ed.

–  PROBLEM SOLVING DA TASCA Nardone G., Ponte alle Grazie Ed. Milano

–  CURARE LA SCUOLA, Balbi E., Artini A., Ponte alle Grazie, Milano

–  SOLCARE IL MARE ALL’INSAPUTA DEL CIELO, G. Nardone, Ponte alle Grazie Ed. Milano
– Spanish Edition, Surcar el mar sin que el cielo lo sepa, Editorial Herder, Barcellona

–  CAMBIARE OCCHI, TOCCARE IL CUORENardone G., Ponte alle Grazie Ed. Milano
– Spanish Edition, 2008, La mirada del corazon, aforismos terapeuticos, Paidos, Barcellona

–  IL DIALOGO STRATEGICO,   Nardone G., Salvini A., Ponte alle Grazie Ed. Milano
– Spanish Edition,  El dialogo estrategico, RBA Libros, Barcellona
– English Edition,  The Strategic Dialogue , Karnac Publishing, London

–  CAVALCARE LA PROPRIA TIGRE,  G. Nardone; Ponte alle Grazie Ed. Milano
– Spanish Edition,  El arte de la estrategema, RBA Libros, Barcellona
– French Edition,  Chevaucher son tigre – Editions du Seuil. Paris

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